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Rilevabilità d’ufficio delle questioni da cui può dipendere la decisione a garanzia del contraddittorio (di Francesca Pollastro)

SOMMARIO: 1 - Inquadramento generale delle questioni applicative delle disposizioni di cui all’articolo 73, comma 3, del Codice del processo amministrativo. 2 – La procedura applicata nel processo civile e la sua possibile estensione anche nel processo amministrativo. 3 - Analisi delle problematiche poste dall’articolo 73, comma 3, nell’ambito di un bilanciamento di principi generali, parimenti tutelati, ma in possibile conflitto.

 

 

  1. Inquadramento generale delle questioni applicative delle disposizioni di cui all’articolo 73, comma 3, del Codice del processo amministrativo.

 

L’articolo 73, comma 3, del C.p.a. prevede che, nell’ipotesi in cui il giudice ritenga di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, debba necessariamente indicarla in udienza dandone atto a verbale; nell’ipotesi in cui, invece, la questione emerga dopo il passaggio in decisione, il giudice ha l’obbligo di sospendere il giudizio ed assegnare alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie.

L’indicata disposizione presuppone quindi da un lato, un dovere di informazione, dall’altro lato, la doverosa concessione di un termine di difesa nell’ipotesi in cui il collegio ravvisi l’esistenza di una questione rilevabile d’ufficio dopo l’avvenuto passaggio in decisione della causa medesima.

La ratio sottesa a detta disposizione è chiaramente identificabile nella necessità di evitare che la controversia possa essere decisa sulla base di una questione non discussa in contradditorio tra le parti, ciò inquadrandosi nella piena attuazione del diritto di difesa[1].

La Giurisprudenza si è più volte pronunciata in argomento, affermando il necessario rispetto del principio del contraddittorio e sottolineando l’illegittimità di una sentenza decisa senza che sia stato consentito alle parti di svolgere compiutamente le proprie difese.

La disposizione di cui all’articolo 73, comma 3, rappresenta quindi, attuazione dei precetti proclamati dall’articolo 111 della Costituzione, in tema di giusto processo, che, nella sua formulazione, così come modificata nel 1999[2], afferma che “la giurisdizione si applica mediante il giusto processo regolato dalla legge”[3], “il processo per essere giusto deve svolgersi nel contradditorio tra le parti, in condizioni di parità davanti al giudice terzo e imparziale” e che “la legge assicura la ragionevole durata del processo”[4].

Da ciò si deduce che il processo, generalmente inteso, anche quello amministrativo, debba necessariamente svolgersi nel rispetto del principio del contraddittorio, così esprimendo l’uguaglianza delle parti in ordine alla possibilità di determinare il convincimento del giudice e il contenuto della decisione[5].

Analogamente, anche il processo amministrativo deve essere informato al principio della terzietà, dell’imparzialità e indipendenza del giudice, definito dalla Corte Costituzionale nel 2002, come principio cardine alla intrinseca natura della giurisdizione[6]. Inoltre il rispetto di un criterio di ragionevole durata del processo, a livello amministrativo, si rivela funzionale non solo alla tutela delle parti in giudizio, ma anche alla certezza ed efficacia dell’azione amministrativa, collegata a una tutela dell’interesse pubblico, regolata in tempi certi e brevi.

In un’ottica di perseguimento dei principi sopra richiamati ed in riferimento all’articolo 73, comma 3, la giurisprudenza ha precisato che l’ipotesi in cui vi sia stata violazione del dovere di informazione, su questioni rilevate d’ufficio e da cui possa dipendere la decisione della causa, costituisce una inosservanza al diritto di difesa e al principio del contraddittorio; violazione che si concretizza, dal punto di vista processuale, nell’obbligo per il giudice di secondo grado di annullare la sentenza e di rimetterla al giudice di primo grado, ai sensi di quanto previsto all’articolo 105 del C.p.a.[7]

In argomento le recentissime sentenze del Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria nn. 10, 11, 14 e 15 del 2018 hanno chiarito e precisato che i casi previsti dall’articolo 105, sopra richiamato, sono da considerarsi tassativi, interpretando la norma come formula “chiusa” e “determinata”[8].

Il Collegio ha altresì specificato che le due formule generali e sintetiche, “mancanza del contraddittorio” e “violazione del diritto di difesa”, presuppongono l’individuazione dei casi concreti tramite criteri determinati e identificabili attraverso le singole norme processuali, unite alla costante giurisprudenza del Consiglio di Stato che ne ha dato una interpretazione chiara ed univoca.

In tale ambito, la decisione n. 10 del 2018 precisa che la lesione del diritto di difesa viene identificata in ipotesi tipiche, elencando alcune di dette casistiche provenienti dalla giurisprudenza tra cui esplicitamente viene inserita anche la violazione dell’articolo 73, comma 3, nel caso in cui il giudice abbia posto a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio e non prospettata alle parti.

Ciò premesso, occorre considerare che, nell’ambito dello stesso comma 3 dell’articolo 73, il legislatore prevede esplicitamente un obbligo di rinvio della decisione e di assegnazione di un termine per consentire alle parti di presentare memorie scritte, nella sola ipotesi in cui vi sia già la rimessione in decisione, lasciando invece indefinito quale comportamento debba adottare il collegio giudicante laddove la questione rilevata d’ufficio venga indicata durante l’udienza di discussione.

In particolare, il problema che si è posto è se costituisca obbligo del giudice, una volta che sia stata indicata in udienza l’esistenza di questioni rilevate d’ufficio, concedere termine per la presentazione di memorie di difesa ovvero consentire esclusivamente una discussione immediata ed orale.

La norma non formula indicazioni precise sul comportamento da adottarsi in tale situazione, e ciò neppure nell’ipotesi in cui i difensori abbiano esplicitamente chiesto che venga loro concesso un termine per la presentazione di memorie scritte.

Sul punto si è pronunciato il Consiglio per la Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, secondo il quale, nel momento in cui il giudice indichi in udienza alle parti la questione rilevata d’ufficio e la ponga a verbale, ciò che va concesso al contraddittorio delle parti è solo la possibilità di discutere oralmente, nella stessa udienza, escludendo l’obbligo per il giudice di dover assegnare termini di sorta per difese scritte, non potendo rinviare la causa a udienza successiva[9].

Il Collegio, nella medesima decisione, ha sottolineato come il chiaro disposto di cui al comma 3, secondo periodo, dell’articolo esaminato, preveda la fissazione di un termine per la proposizione di difese scritte unicamente nel caso in cui il rilievo d’ufficio sia avvenuto dopo il passaggio in decisione della causa.

Tale conclusione tuttavia non pare risolvere tutti i dubbi, in quanto, potrebbe emergere che la concentrazione in udienza della discussione su aspetti emersi solo in quel momento possa rappresentare una eccessiva compressione dei principi del contraddittorio e dei diritti di difesa in giudizio, altresì con possibile lesione dei già sopra richiamati principi costituzionali di cui all’articolo 111.

  1. La procedura applicata nel processo civile e la sua possibile estensione anche nel processo amministrativo.Al fine di esprimere una valutazione sulla questione giuridica qui in esame, appare opportuno richiamare quanto previsto nell’ambito della procedura civile in fattispecie analoga, in particolare a seguito della riforma del 2009, che con la Legge n. 69, ha, tra l’altro, introdotto il secondo comma dell’articolo 101 del Codice di procedura civile[10].La novella all’articolo 101 del Codice di procedura civile, costituisce uno sviluppo logico e coerente con quanto già introdotto con il D. Lgs. n. 40 del 2006, limitatamente al giudizio avanti alla Corte di Cassazione.Ciò premesso, la formulazione del nuovo articolo 101, secondo comma del Codice di procedura civile, risulta pressoché identica alla norma sul giudizio in Cassazione, trovando in essa un referente immediato, non solo sul piano cronologico, ma anche sul piano contenutistico.
  2. La norma, con la sua collocazione nell’ambito del libro del Codice dedicato ai principi fondamentali del processo, rafforza la sua portata generale, come ormai pacificamente ritenuto dalla dottrina prevalente e, tramite la disposizione conclusiva “a pena di nullità”, vuole rafforzare la portata del suddetto obbligo, ampliando l’applicazione del generale principio di tutela del contraddittorio costituzionalmente garantito.
  3. Già nel 2006, infatti, il legislatore, con l’introduzione di un terzo comma all’articolo 384 del Codice di procedura civile, aveva previsto che se il Collegio “ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte riserva la decisione assegnando con ordinanza al P.M. e alle parti un termine non inferiore a 20 e non superiore a 60 giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”[11].
  4. Il legislatore del 2009, tramite l’introduzione del sopra richiamato secondo comma dell’articolo 101, ha disposto che, laddove il giudice ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, debba necessariamente riservare la decisione e assegnare alle parti un termine non inferiore a 20 e non superiore a 40 giorni per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla questione medesima. Il legislatore sottolinea l’importanza di questo adempimento, esplicitamente sanzionando la sua violazione “a pena di nullità”.

L’estensione anche ai giudizi di merito di quanto originariamente previsto per la sola fase di legittimità, ha rappresentato, altresì, l’accoglimento dei forti rilievi manifestati dalla Corte di Cassazione che, in particolare, nella sentenza n. 15194 del 2008, si era così pronunciata: “Il giudice non può decidere la lite in base ad una questione rilevata d'ufficio senza averla previamente sottoposta alle parti, al fine di provocare sulla stessa il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle rispettive difese in relazione al mutato quadro della materia del contendere, dovendo invece procedere alla segnalazione della questione medesima e riaprire su di essa il dibattito, dando spazio alle conseguenziali attività delle parti”[12].

Atteso che, anche in forza del rinvio disciplinato all’articolo 39 del C.p.a., il giudizio amministrativo è regolato dai medesimi principi del contraddittorio che trovano fondamento nella Carta Costituzionale, è lecito domandarsi se le conclusioni cui erano giunti, in relazione al processo civile, la Cassazione prima e il legislatore dopo, non debbano essere estese anche al giudizio amministrativo.

Il sopracitato articolo 39, infatti, stabilisce che “per quanto non disciplinato dal presente Codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”.

È ben vero che, tale meccanismo del rinvio, cd esterno o extra-codicistico, come esplicitato dalla norma, si applica solo in circostanze residuali, allo scopo di attuare un’etero-integrazione normativa solo nel momento in cui vengano a palesarsi forti lacune[13]; tuttavia, a giudizio di chi scrive, si potrebbe ritenere estensibile il meccanismo normativo di cui all’articolo 101 del Codice di procedura civile altresì al giudizio amministrativo, proprio in un’ottica di rimedio ad una possibile lacuna legislativa riscontrabile nell’articolo 73, comma 3, in applicazione dei principi costituzionali ed europei del “giusto processo” e della tutela del contraddittorio.

Principi rilevabili anche dalla già sopra richiamata decisione del Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria n. 15 del 2018, nella quale, nel ricondurre la violazione dell’articolo 73, comma 3, del C.p.a. alle ipotesi di vizio del diritto di difesa, comportante l’annullamento con rinvio, vengono espressi valori propri dell’ordinamento generale, nell’ottica di unitarietà del processo amministrativo e civile, pur nelle loro differenti declinazioni[14].

  1. Analisi delle problematiche poste dall’articolo 73, comma 3, nell’ambito di un bilanciamento di principi generali, parimenti tutelati, ma in possibile conflitto.

 

Come già sopra evidenziato, laddove il giudice amministrativo abbia rilevato una questione d’ufficio da cui dipenda la decisione e ne abbia dato correttamente indicazione in udienza, ci si interroga se costituisca diritto delle parti svolgere esclusivamente in via orale le proprie difese, oppure costituisca onere del giudice concedere un termine per la proposizione di memorie scritte.

Il testo normativo, nell’ipotesi in cui la questione emerga in sede di discussione, non prevede esplicitamente la necessità di rinviare la decisione e l’autorizzazione a presentare memorie.

Tuttavia, nell’ipotesi in cui si propenda per il riconoscimento ai difensori del solo diritto di potere replicare e discutere al momento e in forma orale in relazione alle questioni sollevate dal Collegio e da cui pure dipenderà la decisione, potrebbe emergere una possibile lesione dei principi del contraddittorio.

È ben vero che, come già sopra segnalato, la norma prevede esplicitamente la concessione di un termine nella sola ipotesi in cui il giudice abbia già trattenuto la causa in decisione, ma ciò non può necessariamente condurre a ritenere che, nel caso di rilievo in udienza e perlomeno laddove gli avvocati ne abbiano fatto richiesta, non costituisca un diritto di questi poter produrre difese scritte.

In passato, il principio del contraddittorio veniva ricondotto al solo processo civile, mentre nel processo amministrativo, lo stesso veniva considerato come eventuale, quale conseguenza diretta del fatto che già sul piano sostanziale la Pubblica Amministrazione godeva di una posizione di supremazia rispetto al cittadino.

Detta tesi, tuttavia, non è più sostenibile, a partire dalla entrata in vigore della Costituzione nel 1948 e con l’apertura alle esperienze internazionali del “giusto processo”, ritenendosi ormai pacifica l’applicazione dell’articolo 6 della Cedu non solo ai processi civili e penali, ma anche a quelli amministrativi, tramite un’interpretazione lata che dispone l’applicazione dei principi previsti a prescindere dalla natura dell’organo procedente; solo così il processo amministrativo risulta compatibile con il modello processuale di cui all’articolo 111 della Costituzione[15].

Tra l’altro, in un’ottica di ricerca della parità di trattamento, anche la Corte Costituzionale ha ripetutamente stigmatizzato le agevolazioni irragionevoli e le disparità di trattamento processuali, sancendo l’illegittimità dei privilegi tecnico processuali attribuiti alle pubbliche amministrazioni in danno delle parti private[16].

Tuttavia nonostante dette considerazioni, il processo amministrativo mantiene una naturale asimmetria tra le posizioni dell’amministrazione, da una parte, e del cittadino, dall’altra, tanto da indurre il legislatore ad intervenire nel 2010, prevedendo il criterio di parità delle parti, nell’articolo 2 del C.p.a.[17], dandovi attuazione, anche, tramite il principio dispositivo con metodo acquisitivo, di cui all’articolo 64, commi 1 e 3 del Codice[18] che mitiga la disuguaglianza tramite il riconoscimento di maggiori poteri istruttori in capo al giudice.

Sulla base di tali considerazioni e nell’ottica di un rafforzamento del diritto di difesa e del principio del contradditorio, il richiamo ai maggiori poteri d’ufficio attribuiti al giudice amministrativo, dovrebbe condurre ad interpretare, nel caso di specie, l’articolo 73, comma 3, nel senso di rendere imprescindibile la concessione di un termine a difesa, a maggior ragione nell’ipotesi in cui i difensori ne abbiano fatto richiesta.

Peraltro immaginare una concentrazione della discussione in udienza, escludendo la concessione di termine per le memorie, apparirebbe altresì in possibile contrasto logico con la possibilità di produrre nuove prove e documenti in appello, ritenuti indispensabili per la decisione, dove non sia stato possibile produrli in primo grado, e il diritto dell’altra parte di potersi difendere, con l’obbligo del giudice di garantire il contraddittorio[19].

È ben vero che tali vicende processali potrebbero entrare in conflitto con il principio di ragionevole durata del processo, che, anch’esso, costituisce condizione di “giusto processo” costituzionalmente garantito, ulteriormente richiamato anche dall’articolo 6 della Cedu[20].

In ambito processuale infatti, il “tempo” riveste un ruolo fondamentale e in sede amministrativa, l’attuazione dei principi a tutela dello stesso si rileva funzionale non solo alla tutela delle parti del giudizio, ma anche alla certezza ed efficacia dell’azione amministrativa, in quanto la tutela dell’interesse pubblico impone tempi certi e brevi per la proposizione del ricorso e la definizione del processo[21].

Tuttavia la necessità di garantire una rapida conclusione della controversia ed eliminare una situazione di incertezza, non deve pregiudicare il diritto di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’articolo 24 della Costituzione[22].

Inoltre, il necessario bilanciamento con il principio di ragionevole durata del processo non deve condurre ad una eccessiva strozzatura e compressione del confronto tra le parti, con la possibilità peraltro di determinare decisioni “deboli”, più facilmente attaccabili tramite impugnazioni[23].

Spetta al legislatore individuare il punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze e introdurre nell’ordinamento processuale norme che, pur in un’ottica di concentrazione dei tempi del giudizio, salvaguardino l’effettività della tutela. In questo senso la previsione di termini perentori risponde a tali finalità, perseguendo esigenze di certezza e di uniformità e garantendo anche l’effettiva parità delle parti in causa.

Anche la Corte Costituzionale, in una decisione del 2002, ha precisato che il favorire sul piano normativo la rapidità della definizione del giudizio non può vanificare i valori costituzionali che in esso sono coinvolti[24].

A tali considerazioni può aggiungersi, altresì, una valutazione della questione dal punto di vista del principio del doppio grado di giurisdizione che, seppur non essendo esplicitamente costituzionalizzato, non può essere tralasciato.

Tale principio, attuato nel processo amministrativo solo in seguito all’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali, del 1971, prevede che dopo la decisione di primo grado, sia ammessa la possibilità di un riesame dalla causa avanti a un diverso organo giudicante. Per l’effetto, ai sensi di quanto precisato dalla Corte Costituzionale con decisione n. 8 del 1982, non è consentito ai Tribunali Amministrativi decidere questioni giurisdizionali in un unico grado.

Ora, se si interpretasse il disposto dell’articolo 73, comma 3, del C.p.a. come una norma che riconosce la mera facoltà di concedere termini, propendendo per una sola discussione immediata e orale tra le parti, in ipotesi di appello, di fatto, non si avrebbe più il rispetto del doppio grado del giudizio, in quanto la questione pregiudiziale verrebbe compiutamente affrontata solo in sede di impugnazione.

Anche su tale principio è significativo l’esame delle argomentazioni cui è giunta l’Adunanza Plenaria nelle recenti decisioni del 2018, dove si sottolinea con forza la natura “chiusa” dell’articolo 105 del C.p.a. e l’impossibilità di darne un’interpretazione estensiva e analogica, in nome di un mal interpretato principio del doppio grado di giudizio.

Sul punto, si evidenzia che “la natura eccezionale dei casi di annullamento con rinvio non trova alcun ostacolo nel principio del doppio grado di giudizio e, contrariamente a quanto a volte si sostiene per ampliare le ipotesi di rimessione al primo giudice, non ne costituisce una deroga. Il doppio grado di giudizio non richiede, infatti, una doppia pronuncia sul merito, ma semplicemente che il giudice valuti gli atti processuali ed emetta un giudizio”[25].

Tuttavia, pur nell’ambito di questa interpretazione rigida, il constatare l’inclusione della violazione dell’articolo 73, comma 3, del C.p.a. nelle ipotesi di lesione del diritto di difesa, sottolinea la natura di una violazione incidente sul sistema processuale di particolare gravità, tale da determinare la rimessione della causa al primo giudice.

Anche sulla base della forza di tale argomentazione, si evidenzia che il problema di applicazione dell’articolo 73, comma 3, riguarda il pieno esercizio del diritto di difesa; per l’effetto sulla base delle considerazioni sopra esposte, dovrebbe affermarsi la chiara propensione verso la piena tutela del principio del contraddittorio, da realizzarsi attraverso una lettura sistematica e uniforme della norma del Codice del processo amministrativo, prevedendo l’obbligo per il giudice di concedere termini per le difese, quando emerga per la prima volta in udienza una questione rilevata d’ufficio, da cui possa dipendere la decisione, e ciò perlomeno nella ipotesi in cui detti termini di difesa siano stati richiesti dai difensori.

 

 

[1] In riferimento all’articolo 73, comma 3, del C.p.a. e ai principi costituzionali che ne stanno alla base, si veda: Casetta E., Manuale di diritto amministrativo, A cura di Fracchia F., Giuffrè, Milano, 2013, pagg. 987-988; Cons. Stato, IV, 18 aprile 2013 n. 2175, con relativa nota Sulla ratio dell’art. 73 comma 3°, c.p.a. e sull’obbligo del G.A. di osservare il principio del cd clare loqui, massimario Questioni rilevabili d’ufficio, in www.ricerca-amministrativa.it; Randazzo A., Questioni rilevabili d’ufficio e tutela del contraddittorio nel processo amministrativo in www.justowin.it.

[2] Per un approfondimento sulla riforma costituzionale dell’articolo 111, della Legge n. 2 del 1999, si veda: Cecchetti M., La riforma dell’articolo 111 cost.: tra fonti preesistenti, modifica della Costituzione, diritto intertemporale ed esigenze di adeguamento della legislazione ordinaria, in www.osservatoriosullefonti.it; Vignera G., Il “giusto processo” nell’articolo 111, comma 1, Cost.: nozione e funzione, in www.ambientediritto.it.

[3] Articolo 111, primo comma della Costituzione.

[4] Articolo 111, secondo comma, primo e secondo periodo, della Costituzione e di seguito, in commento al principio costituzionalmente del “giusto processo”, come previsto e tutelato nel diritto amministrativo, nelle sue formulazioni di tutela del contraddittorio e parità delle parti: De Vita A., I principi del processo in Diritto Processuale Amministrativo, A cura di Marini F. S. e Storto A., La Tribuna, Piacenza, 2018, Cap. II, pagg. 49 e ss.; Caringella F., Compendio di diritto amministrativo, in Compendi Maior, Dike giuridica, Roma, 2017, pagg. 943 ss.; Casetta E., Manuale di diritto amministrativo, A cura di Fabrizio Fracchia, Cit., pagg. 862 ss.; Ramajoli M., Giusto processo e giudizio amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, rivista trimestrale, anno 2013, fasc.1, pagg. 100 ss.

[5] Sulla tutela del diritto al contraddittorio, ai sensi dell’articolo 73, comma 3, si segnala: Cons. Stato, IV, 7 dicembre 2015, n.5570, con commento di Amato S., Il potere di riqualificazione giudiziale del provvedimento amministrativo impugnato: considerazioni a margine di Cons. Stato, IV, 7 dicembre 2015, n. 5570, in www.giustamm.it.

[6] Corte Cost., 17 luglio 2002, n. 353; reperibile in Giur. Cost. 2002, Fasc.4, pagg. 2646 e ss., con nota redazionale di Alesse R.

[7] Occorre segnalare che l’applicazione della disposizione di cui all’articolo 105 del C.p.a. era stata rimessa all’attenzione dell’Adunanza Plenaria, con quattro distinti provvedimenti, Cons. Stato, IV, 5 aprile 2018, n. 2122; V, 10 aprile 2018, n. 2161; III, 24 aprile 2018, n. 2472; C.G.A.R. Sicilia 17 aprile 2018, n. 223.

[8] Attraverso le predette pronunce è stato confermato l’orientamento tradizionale in materia, che propendeva per il carattere tassativo ed eccezionale dei casi di rimessione al giudice di primo grado, previsti dall’articolo 105 del C.p.a., così escludendo tutte le ipotesi di erronea chiusura in rito del processo, diverse da quelle espressamente tipizzate dal legislatore (estinzione e perenzione).

Nello specifico si vedano, Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 30 luglio 2018, n. 10; 30 luglio 2018, n. 11; 5 settembre 2018 n. 14; 28 settembre 2018, n. 15 ed in commento della Adunanza Plenaria n. 10 del 2018 Sandulli M. A. Il Consiglio di Stato è giudice in unico grado sulle domande declinate o pretermesse dal TAR. La Plenaria definisce i confini del rinvio al primo giudice e stigmatizza la motivazione apparente delle sentenze, in www.federalismi.it.

[9] C. G. A. R. Sicilia, 27 luglio 2012, n. 721.

[10] Legge 18 giugno 2009, n. 69, Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile, in Gazzetta ufficiale, n. 140, del 19 giugno 2009, con commento di Magri C. e Vitullio V., La riforma del processo civile, in www.amministrativamente.com; al quale si collega e si richiama in dottrina, Fabiani E., Contradditorio e questioni rilevabili d’ufficio, in La nullità per il processo civile (L. 18/6/2009, n. 69) in Foro It., Vol. 132, n.9, pagg. 264-268; Randazzo A., Questioni rilevabili d’ufficio e tutela del contraddittorio nel processo amministrativo Cit; Buoncristiani D., Il principio del contraddittorio nel rapporto tra parti e giudice, il nuovo articolo 101 c.p.c., in www.judicium.it; Giordano A., Sull’art. 101, comma 2, c.p.c.: un disposto recente su una questione antica, in Giustizia Civile, fasc. 3, Giuffrè, Milano, 2012, pag. 139.

[11] Sulle precedenti modifiche Fabiani E., Rilievo d’ufficio di “questioni” da parte del giudice, obbligo di sollevare il contradditorio delle parti e nullità della sentenza, in Foro It., 2006, n. 1, pagg. 3174 e ss.

[12] Corte Cass., Civile, II, 9 giugno 2008, n. 15194.

[13] Conforme nel sottolineare il carattere di residualità della norma di rinvio esterno, C. G. A. R. Sicilia, 27 luglio 2012, n. 721.

[14] Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 28 settembre 2018, n. 15.

[15] Sull’applicazione del principio di cui all’articolo 111 della Costituzione al processo amministrativo: Ramajoli M., Giusto processo e giudizio amministrativo, Cit.

[16] Tra le altre, Corte Cost., 8 giugno 1967, n. 97, in cui la Corte ha riconosciuto come illegittimo l’articolo 11, comma 3, della Legge 30 ottobre 1933, n. 1611, nella parte in cui escludeva la sanatoria delle nullità derivanti da notificazione effettuata presso uffici incompetenti dell’Avvocatura dello Stato.

Si segnala altresì l’assai recente Sentenza della Corte Cost., 26 giugno 2018, n. 132, in cui la Corte ritiene costituzionalmente illegittimo l’articolo 44, comma 3, del C.p.a., limitatamente alle parole “salvi i diritti acquisiti anteriormente alla comparizione”. La pronuncia dichiara incostituzionale la disposizione ritenendo sussistere una ingiustificata differenza con quanto previsto dall’articolo 156 del Codice di Procedura Civile, che prevede una sanatoria ex tunc della nullità degli atti processuali che abbiano raggiunto lo scopo; norma che è stata interpretata sia della giurisprudenza della Corte di Cassazione, che del Consiglio di Stato, come principio generale applicabile anche a livello amministrativo, non costituendo una lesione del principio della tutela del contraddittorio ed essendo quindi espressione dei principi di giusto processo, diritto di difesa e parità delle parti costituzionalmente garantiti.

Questa pronuncia si pone anche in linea con la giurisprudenza precedente della medesima Corte Costituzionale nella sentenza sopra citata del 1967.

[17] Art 2 C.p.a., comma 1: “il processo amministrativo attua i principi di parità delle parti, del contradditorio e del giusto processo previsto dall’articolo 111, primo comma, della Costituzione”.

[18] Art. 64 C.p.a. comma 1 e 3: “Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”… “Il giudice amministrativo può disporre, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della Pubblica amministrazione”.

[19] De Vita A., I principi del processo, Cit., pagg. 63-64.

[20] Articolo 111, comma 2, come modificato dalla Legge n. 2 del 1999, prevede una formula che riguarda il principio di ragionevole durata del processo riprendendo quella contenuta nel primo paragrafo dell’articolo 6 della Cedu, con la differenza che la disposizione della Convenzione enuncia un vero e proprio diritto soggettivo azionabile dalla persona lesa, invece l’articolo 111, della Costituzione, sembra rivolgersi soprattutto al legislatore ordinario, imponendogli di prestare tutti i mezzi necessari perché il processo consegua i suoi obbiettivi in tempi brevi. In altri termini, risulta che a livello costituzionale viene prevista una garanzia oggettiva destinata ad incidere sull’organizzazione tecnica del processo e sul funzionamento dell’azione amministrativa e non tanto sulla garanzia soggettiva dell’autonomo diritto dell’individuo.

[21] In tema di principio di ragionevole durata del processo: De Vita A., I principi del processo Cit., pagg. 67 e ss.; Caringella F., Compendio di diritto amministrativo, Cit., pagg. 943-944.

[22] Sulla prevalenza della tutela giurisdizionale effettiva rispetto alla tutela della ragionevole durata del processo: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 4 marzo 2016, n. 4248.

[23]Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 4 marzo 2016, n. 4248.

[24] Corte Cost., Ordinanza, 19 novembre 2002, n. 458.

[25] Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 30 luglio 2018, n. 10; in commento, Sandulli M. A., Il Consiglio di Stato è giudice in unico grado, Cit.

(3 dicembre 2018)

Francesca Pollastro èSpecializzanda presso la Scuola di Specializzazione per le professioni legali - Università di Pavia/Università Bocconi Milano.

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PPP e Concessioni: equilibrio, revisione del PEF e nuove Linee Guida del NARS (di Marco Tranquilli e Paola Balzarini, il Merito 04/2021)

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La decorrenza del termine per ricorrere contro l'aggiudicazione (di Luca Bertonazzi, il Merito 03/2021))

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Dialogo con l’Autore: Emanuele Stolfi e la narrazione dell’epidemia (di Giovanni Cossa, il Merito 03/2021)

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