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ISSN 2532-8913

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Convegno “Merito e crescita”, Università Luiss Guido Carli, Roma 9 giugno 2016

guido bortoni

Presidente dell’Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico

“Regolazione e Merito”

 

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Prima di entrare nel vivo dell’argomento di oggi mi preme dire che sono onorato di essere qui una rara avis, anzi forse una unica avis, quale ingegnere chiamato a parlare in questo consesso di giuristi e ciò mi provoca anche qualche trepidazione. Vorrei partire, anzitutto, da una breve considerazione sul titolo del nostro dibattito, ovvero le “buone pratiche della regolazione”, il cui significato ritengo sia perfettamente centrato. Marcello Clarich nel suo intervento citava il decalogo dell’OCSE che, tradotto dalla sua lingua, parla di better regulation, quindi “miglior” regolazione, vale a dire di un grado superiore all’aggettivo “buona”. Va aggiunto che la traduzione di “buona” pratica in italiano in realtà deriva da best practice, quindi “la migliore” regolazione. A questo riguardo io credo che si debba adottare un low profile, essere molto realisti e pragmatici e, appunto, puntare a delle buone pratiche, non certamente migliori né “le” migliori.

Ma non voglio né posso essere io a giudicare se la regolazione, nel mio caso energia e servizi idrici, sia “buona” e neanche, quindi, se applichiamo una buona regolazione e delle buone pratiche. Questo spetta ad altri valutarlo. Come sapete, c’è un motto evangelico che dice: “Riconoscerete una buona pianta dai suoi buoni frutti”. Ebbene, credo che la regolazione sia, prima di tutto, un fattore abilitante in quanto rappresenta un elemento che può favorire il merito e far maturare la crescita del Paese e dell’economia: appunto, buoni frutti! Se dovessi classificare la regolazione, la inserirei fra quelle attività che riguardano più il metodo che i meriti. In sostanza, la regolazione rientra nella famiglia dei metodi perché mette in campo codici, ovvero una summa di regole, che servono ai soggetti operativi nei mercati - o, più in generale, nelle attività economiche -, consentendo loro di esprimere i meriti. I meriti rappresentano, dunque, i risultati raggiunti e messi in campo dai diversi attori che, come dicevo, svolgono le loro attività nei mercati sia concorrenziali che monopolistici dei settori regolati. La regolazione ha la finalità “naturale” di livellare il campo di gioco, eliminando barriere all’entrata dei mercati, in modo che gli operatori, sia nella loro pluralità, che singolarmente, possano esprimere al meglio i propri meriti. In un settore liberalizzato, quale quello dell’energia elettrica, ad esempio, si riscontrano situazioni in cui taluni soggetti godono di vantaggi competitivi rispetto ad altri: alcuni perché sono più bravi, più specializzati dei propri concorrenti, e in questo caso i vantaggi sono espressione di un merito; altri, invece, traggono i propri privilegi semplicemente da un retaggio del passato, in quanto eredi di incumbent una volta verticalmente integrati. Come ho già detto, dunque, la regolazione cerca di riportare la competizione su un level playing field affinché tutti possano esprimere al meglio quella parte dei meriti, i talenti come si diceva una volta, di cui sono dotati. Anzi, per obbligo di completezza, devo ricordare che oggi abbiamo a disposizione anche una fattispecie della regolazione, che va sotto il nome di regolazione “asimmetrica”, che giunge a “frenare” i più forti, al fine di aumentare l’efficacia dello strumento regolatorio nella massimizzazione dei meriti. È stata introdotta nell’energia dal nostro ordinamento, in particolare dal Decreto Legislativo n. 93 del 2011, e autorizza il regolatore ad applicare dei piani inclinati, se così posso definirli, per quegli operatori che partono in svantaggio a causa dei suddetti retaggi storici che, pur legittimi, favoriscono però solo pochi competitor. Sempre citando l’interessante intervento di Clarich che mi ha preceduto, il principale motore della crescita consiste nell’espressione della concorrenza e dello sfruttamento - parola che non prediligo ma in questo caso calzante - dei meriti di ciascun soggetto attivo nel gioco concorrenziale. Ovviamente anche la regolazione stessa, che come ho detto è uno strumento, si alimenta di meriti, perché anch’essa, come tutte le attività umane, si sviluppa e si radica nei talenti delle persone e nei contesti in cui nasce e cresce.

Giungo, quindi, ad un secondo punto di riflessione a cui tengo particolarmente, che prende spunto dall’attributo “indipendente” da tutti immediatamente associato al regolatore. La platea di giuristi che mi ascolta potrebbe insegnarmi tanto sulla teoria dell’indipendenza dei poteri del regolatore rispetto a quelli del Governo, della politica. È chiaro però che - e questo è un concetto per me fondamentale - l’indipendenza viene raggiunta se e solo se si acquisisce una condizione necessaria che appartiene proprio al campo dei meriti: la competenza. Marcello Clarich prima diceva che nel mondo anglosassone ci sono dei modelli di regolazione sempre più basati su rapporti di tipo contrattuale con gli operatori. In Inghilterra sono dei precursori e infatti hanno già introdotto dei metodi output based, attraverso i quali, superando il concetto di regolazione basato su un’obbligazione di mezzi - che stabilisce in anticipo la remunerazione degli asset -, si passa ad un nuovo metodo basato su un’obbligazione di risultato. Output based, tradotto in italiano, significa che il soggetto regolato viene inserito in un rapporto contrattuale con il regolatore, un sinallagma, per usare un termine più vicino a voi giuristi, che comporta la misurazione e la valutazione dell’output, ovvero il risultato che l’operatore di mercato o il gestore raggiunge. In un tale modello di regolazione ancor di più la competenza è condizione necessaria per l’indipendenza e ciò soprattutto se pensiamo alla cosiddetta fattispecie della “cattura del regolatore”. La “cattura del regolatore”, semplificando, può avvenire in due modi: con modalità non lecite, che non approfondiamo in questa sede; oppure la cattura avviene perché il regolatore non è esperto nel settore da esso regolato, ovvero è incompetente. Parliamo, insomma, di competenza tecnica del regolatore nei propri settori, come presupposto dell’indipendenza. È chiaro che questo non basta: ci vuole il quid pluris della eticità per passare dalla competenza pura alla indipendenza di giudizio e valutazione rispetto sia agli operatori di mercato che al Governo e agli altri poteri costituiti. In ogni caso la competenza, che è un po’ la figlia del merito, è la prima condizione necessaria per avere l’indipendenza.

E’ stata citata più volte, negli interventi che mi hanno preceduto, la questione della certezza e della stabilità della regolazione. A questo proposito, voglio qui provare a rappresentarvi il dilemma che sta dietro a queste parole. È evidente che per la tenuta e lo sviluppo degli investimenti di un settore, la regolazione, ma anche la legislazione, devono avere dei crismi di stabilità e di certezza: l’investitore partecipa infatti al “gioco” solo se il rischio regolatorio è minimizzato. Questo è un estremo del dilemma. Ma la certezza al cento per cento non esiste in natura. L’altro estremo ci dice invece che, come tutte le cose della vita, è impensabile che ci sia una regola o una legge fissa, immutabile e autoreferenziale, e ciò perchè il contesto a cui si riferisce cambia. Se non vogliamo che una regola produca danni, dobbiamo quindi far sì che la regolazione possieda anche delle doti di flessibilità, di adattabilità, di resilienza ai cambiamenti del contesto, che sono - si può dire - il contrario della stabilità e della certezza, invece così benefica per gli investimenti. Qual è quindi la soluzione del dilemma? Si tratta di dividere il problema in due, ovvero di metterlo su due piani diversi per far sì che la regolazione possa essere un insieme di codici prevedibili.

Il primo piano, che come regolatore devo mettere a disposizione del mercato, è quello dei criteri, dei principi, che presidiano il quadro regolatorio della materia da disciplinare: questi, sì, più fissi delle specifiche regole che poi dettaglieranno l’attuazione. Pertanto, quando intendo cambiare questo primo piano delle regole devo attivare anche il massimo grado di partecipazione, di consultazione degli stakeholder, degli investitori, delle istituzioni, perché sto cambiando una linea guida e devo allora fare in modo che tutti siano il più possibile consapevoli che il timone sta ruotando. Molto dipende, poi, anche dal criterio su cui si va ad incidere: se è un criterio generale e strategico devo renderlo, per esempio, coerente con il quadro strategico quadriennale dell’Autorità che viene aggiornato ogni anno (tenendo però fermo il 2018, anno di fine mandato del mio Collegio, per non esondare nel lavoro dei miei futuri colleghi). Tale quadro strategico, dove si delineano i cardini principali della nostra azione regolatoria, riesce ad essere un documento snello e dai contenuti concreti che guidano effettivamente l’attività dell’Autorità.

Il secondo piano è quello delle regole attuative: lì, sotto l’egida di criteri generali più fissi possibile, più prevedibili possibile, ci devono essere delle regole che siano sufficientemente adattabili e flessibili, per star dietro ai cambiamenti di contesto. Concretamente, un esempio di ciò è dato dalla nostra grande riforma del mercato all’ingrosso del gas, iniziata nel 2012. Si partiva da una situazione in cui vi erano ancora i contratti pluriennali take or pay di lungo termine con rendite interne che si scaricavano sulla bolletta dei consumatori civili; tutto questo in un contesto ormai basato, nei Paesi vicini, su mercati spot ben liquidi. La nostra riforma ha, quindi, operato nella direzione di arrivare ad agire, anche in Italia, in un contesto spot, con regole a vantaggio del consumatore. Naturalmente, visto dalla parte di aveva stipulato contratti take or pay a lunga scadenza, ciò è potuto sembrare un cambiamento in corsa delle regole del gioco. Il caso, per certi versi paradigmatico, della riforma del mercato all’ingrosso del gas ci aiuta a capire cosasia, in concreto, la necessità, per il regolatore, di coniugare un livello di criteri strategici generali, il più fisso possibile, con un insieme di regole che deve essere necessariamente adattativo.

Concludo il mio intervento, uscendo dall’ambito della regolazione in senso stretto. Come ho detto, la regolazione, nel campo dei metodi, favorisce, per quanto possibile, la crescita. Da sola però la regolazione non può tutto: essa deve agire in un sistema istituzionale ordinato e soprattutto coordinato. Mi riferisco, ad esempio, al rapporto della regolazione con la politica, diciamo, nel mio caso, energetica. Questi due ruoli devono essere assolutamente sincronizzati e tarati; se ognuno si muove in maniera disordinata e sfasata l’effetto complessivo sul sistema, non sarà così efficiente o così efficace come nel caso in cui invece questi tasselli si muovano all’unisono e siano ordinati. Ricorrendo ad una facile metafora, potremmo immaginare la politica energetica e la regolazione come cilindri di un motore bicilindrico “boxer”: il massimo dell’armonia e della sinergia, pur nella grande indipendenza di dinamica e di ciclo. Purtroppo, fuor di metafora, sul piano istituzionale siamo lontani da questo modello e, sfortunatamente per tutti, i risultati si vedono e non sempre sono brillanti.

 

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