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Considerazioni in tema di controllo pubblico dopo il D.Lgs. 175/2016 (di Marco Pastorelli)

 

 1. Il presente contributo – sia consentita la doverosa premessa – non ha ovviamente la pretesa di ridefinire sul piano concettuale la nozione di “controllo pubblico” alla luce del Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica, quanto piuttosto quello di proporre una ricognizione, quanto più possibile compendiosa, dei parametri definitori e dei criteri di collegamento che segnano il confine, ancora mutevole ed incerto, tra le società a (mera) partecipazione pubblica e le società in controllo pubblico.

A tal fine, occorre procedere ad un censimento delle varie forme di controllo contemplate dall’ordinamento, dovendosi sul punto evidenziare che, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 175/2016, la casistica applicabile al variegato sistema delle c.d. “società pubbliche” corrisponde solo in parte alle tradizionali categorie civilistiche, codificate in via generale dall’art.  2359 del Codice civile.  

La norma di riferimento è, come noto,  l’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 175/2016, secondo cui – lettera m) – per “società a controllo pubblico” s’intendono «le società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi della lettera b)»; la disposizione richiamata recita che per “controllo” si intende «la situazione descritta nell’articolo 2359 del codice civile. Il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo».

  1. Le forme di controllo previste dall’art. 2359 cod. civ. sono notissime, e vengono di seguito sinteticamente illustrate solo per completezza di analisi: a) la prima ipotesi di controllo è quella del cosiddetto controllo interno “di diritto”, che si verifica quando uno dei soci dispone della maggioranza del capitale sociale o, comunque, della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, in cui si approva il bilancio e si procede alla nomina e alla revoca degli amministratori e dei sindaci; b) la seconda fattispecie, nota come controllo interno “di fatto”, ha luogo quando il controllante, pur non disponendo della maggioranza del capitale sociale (si tratta, quindi, di un’ipotesi di controllo minoritario), è comunque in grado di esercitare un’influenza dominante sulle deliberazioni dell’assemblea ordinaria; c) la terza ipotesi delinea invece un controllo di tipo esterno, che trova fondamento, indipendentemente dalla detenzione di azioni o quote di capitale sociale, nella sussistenza di «particolari vincoli contrattuali» tra il controllante e la società controllata, la cui costituzione ed il cui perdurare rappresentino la condizione di esistenza e/o di sopravvivenza della capacità d’impresa della società controllata o che siano comunque tali da consentire alla controllante di imporre le proprie scelte nella gestione imprenditoriale della società controllata.
  1. Alle forme di controllo previste dall’ordinamento privatistico si affiancano ora le ipotesi previste dall’art. 1, comma 2 lett. b), secondo alinea D.Lgs. 175/2016, secondo cui «il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo». È infatti possibile enucleare da tale precetto normativo due ulteriori forme di controllo:
  • vi è anzitutto il c.d. “controllo congiunto”, la cui elaborazione concettuale è avvenuta, prima ancora dell’entrata in vigore del D.Lgs. 175/2016, ad opera del Consiglio di Stato (Sezione I, parere 04/06/2014, n. 594), il quale riteneva che il controllo societario ex art. 2359 doc. civ., codificato dalla norma civilistica come situazione imputabile ad un unico socio, nel caso delle “società pubbliche” può ritenersi unitariamente realizzato quando più pubbliche amministrazioni congiuntamente – grazie ad accordi tra loro o a comportamenti paralleli – dispongono della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria (controllo congiunto di diritto), ovvero di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (controllo congiunto di fatto), oppure esercitano congiuntamente sulla società un’influenza dominante in virtù di particolari vincoli contrattuali con esse (controllo congiunto contrattuale). Il Consiglio di Stato, in coerenza con le regole discendenti dal diritto comune, non riteneva sufficiente, ai fini della configurazione del controllo congiunto, la mera titolarità pubblica della maggioranza assoluta del capitale, essendo tale elemento, da solo considerato, estraneo all’art. 2359 cod. civ., che riguarda le due ipotesi del «socio sovrano» e del «socio tiranno», in cui chi esercita il controllo è tradizionalmente il dominus della società, concetto che non può dirsi certo integrato quando le pubbliche amministrazioni socie, pur detenendo la maggioranza del capitale, agiscano separatamente. In conclusione, per il Consiglio di Stato – in caso di partecipazioni frazionate nessuna delle quali singolarmente riconducibili alle ipotesi di controllo ai sensi dell’articolo 2359 cod. civ. – la società potrà definirsi “in controllo pubblico” solo qualora esistano norme di legge, clausole statutarie o patti parasociali che espressamente dispongano, che per le decisioni strategiche della società sia richiesto il consenso unanime di tutte le amministrazioni che dispongano il controllo; in assenza di disposizioni negoziali espresse – ed è su questo punto che il parere del Consiglio di Stato si discostava dalla tradizionale ricostruzione civilistica dell’istituto – il controllo poteva anche fondarsi su accordi taciti, desumibili in via presuntiva da “comportamenti paralleli”.

Sulla fattispecie in commento, merita dar conto che la Corte dei Conti - Sez. di controllo per la Liguria (Deliberazione n. 3/2018/PAR), andando di contrario avviso rispetto all’opinione del Consiglio di Stato, ha affermato che il controllo pubblico congiunto possa fondarsi sulla mera titolarità pubblica della maggioranza di capitale, identificando, in buona sostanza, la situazione di “controllo pubblico congiunto” con la sommatoria delle partecipazioni detenute dalle singole pubbliche amministrazioni socie a prescindere dall’esistenza di patti di sindacato espressi o taciti, tutto ciò al fine di evitare che «le società a capitale pubblico frazionato (ricorrenti nell’ambito dell’espletamento dei servizi pubblici locali) possano strumentalmente sottrarsi all’applicazione delle disposizioni dettate, per esempio, in materia di amministratori e dipendenti (artt. 11, 19 e 25 TUSP) nei confronti delle (sole) “società a controllo pubblico” (eccependo l’assenza di norme di legge, statutarie o di patti di sindacato fra i soci pubblici esplicitanti e delimitanti le modalità di esercizio del controllo)».

Va detto però che tale lettura dell’art. 1, comma 2 del T.U. è rimasta, a quanto consta, al momento isolata, dovendosi peraltro rilevare che la Sezione Regionale di Controllo per l’Emilia Romagna, in un recente parere (Deliberazione n. 36/2018/VSGO), ha ritenuto di attenersi alle direttive ermeneutiche dettate dal Consiglio di Stato, affermando che «l’ipotesi del controllo di cui all’art. 2359 del Codice civile possa ricorrere anche quando le fattispecie considerate dalla norma si riferiscano a più pubbliche amministrazioni, le quali esercitino tale controllo congiuntamente mediante comportamenti concludenti, a prescindere dall’esistenza di un coordinamento formalizzato». Anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nell’Orientamento del 15 febbraio 2018, ha ribadito la validità del perimetro concettuale delineato dal Giudice di Palazzo Spada nel parere n. 594/2014, ritenendo cioè essenziale, ai fini della verifica del “controllo congiunto”, la presenza di forme di controllo esercitate mediante «comportamenti concludenti, pure a prescindere dall’esistenza di un coordinamento formalizzato».

  • Alla luce del precetto normativo in esame, pare potersi individuare anche un’ulteriore forma di controllo congiunto, stavolta puramente “testuale” (siccome ravvisabile non in comportamenti ma piuttosto in pattuizioni formali), riconoscibile per la presenza di particolari clausole statutarie o di patto parasociale che consentano alla compagine pubblica, anche minoritaria (o divenuta tale), di condizionare le «decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale». Si apprende, infatti, da uno dei documenti confluiti nei “lavori preparatori” della Riforma (ovvero il Dossier dei Servizi Studi di Senato e Camera n. 297 sul Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, p. 9), che la ratio di tale aggiunta definitoria (evidentemente laddove si riferisce al “consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo”) «è quella di poter assimilare al controllo di una società anche la situazione in cui sussista la facoltà di una pubblica amministrazione di esercitare un potere di veto». Pare confortare tale lettura, a livello sistematico, l’art. 1 del D.Lgs. 39/2013 (Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico), secondo cui – lettera c) – per “enti di diritto privato in controllo pubblico” si intendono «le società e gli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi dell’articolo 2359 c.c. da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi». Anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel citato Orientamento del 15 febbraio 2018, riconosce l’esistenza di tale forma di controllo, laddove afferma che rientra nella fattispecie prevista dall’art. 1, comma 2 lett. b), del TUSP «il caso dell’influenza interdittiva attribuita alla Pubblica Amministrazione, come nell’ipotesi del patto parasociale che attribuisce al socio pubblico un potere di veto».
  1. Dovendo riepilogare gli esiti della ricognizione appena compiuta, è possibile affermare che il TUSP abbia ampliato le fattispecie del “controllo”, prevedendo, a fianco delle tre tradizionali figure dettate dall’articolo 2359 cod. civ., il controllo esercitabile da più amministrazioni congiuntamente (anche mediante patti di sindacato non formalizzati e desumibili da comportamenti concludenti, secondo l’insegnamento del Consiglio di Stato) e quello – che potremmo definire “testuale” – derivante da clausole, contenute nello statuto o nei patti parasociali, che attribuiscano al socio pubblico (o alla compagine pubblica nel suo insieme) un sostanziale potere di veto sulla governance societaria. Isolata è invece rimasta, almeno finora, l’opinione (espressa dalla Sezione Regionale di Controllo per la Liguria della Corte dei Conti) secondo cui il controllo congiunto coinciderebbe con la mera titolarità pubblica della maggioranza del capitale, a prescindere cioè dalla presenza di patti di sindacato desumibili da “comportamenti paralleli” o dall’attribuzione al socio pubblico di poteri di veto.

I criteri definitori passati in rassegna appaiono comunque, a distanza di quasi due anni dall’entrata in vigore della riforma, non completamente consolidati né a livello di prassi, né sul piano dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, il che determina, accanto alle problematiche di interesse teorico, il persistere di difficoltà pratiche di non poco conto, considerata la notevole differenza che separa ormai lo “statuto giuridico” delle società a mera partecipazione pubblica dalle società controllate: si pensi solo – a titolo meramente esemplificativo – alla necessità per queste ultime di conformare l’organizzazione societaria al modello di cui all’art. 11 del D.Lgs. 175/2016, di adeguare il reclutamento del personale ai principi di cui all’articolo 35, comma 3, del Testo Unico del Pubblico Impiego, di adottare tutte le misure previste dalla vigente normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, di adeguare il conferimento degli incarichi dirigenziali e di responsabilità amministrativa di vertice alle disposizioni di cui al D.Lgs. 39/2013, di adottare il sistema di fatturazione IVA con scissione dei pagamenti.

 

(22 maggio 2018)

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