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Alcuni chiarimenti sull’esito (positivo) della COP21 di Parigi

(di Andrea Marroni)

 

Il contesto

Per il 21° anno di seguito, la Conferenza delle Parti della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC)  si è tenuta a fine novembre-inizio dicembre a Parigi.

Nel 2009 forse qualcuno si ricorda ancora del fallimento di Copenaghen. In effetti, il negoziato sul clima è  ormai una sorta di routine, con esiti che sono stati spesso classificati come non adeguati o non sufficientemente ambiziosi. In particolare Copenaghen nel 2009 (COP15) rappresenta il punto più basso quando non riuscì il tentativo su base multilaterale di estendere la responsabilità di ridurre le emissioni di gas serra a tutte le principali economie mondiali. Ma sono molti i “fili rossi” di questa storia che trova la sua base giuridica  nella Convenzione del 1992 (UNFCCC) e nel successivo Protocollo di Kyoto del 1997: la contabilità delle emissioni, le responsabilità storiche dei Paesi industrializzati, il tentativo di creare una nuova commodity associata alla emissione in atmosfera di una tonnellata equivalente di carbonio.

Per molti, la radice vera del problema climatico è l’energia. Circa il 70% delle emissioni globali è infatti legato al consumo di combustibili fossili, dalla loro estrazione al loro utilizzo. Tuttavia, all’interno della normativa internazionale sul clima, non si è mai sviluppata una solida linea di negoziato relativa al cambiamento della matrice energetica globale.


L’Unione europea ha avuto il merito di trainare il processo e con i suoi obiettivi unilaterali ha messo in evidenza il nesso tra clima ed energia; con le politiche dei suoi Stati membri ha accelerato lo sviluppo e la diffusione di tecnologie a basso contenuto di carbonio nel settore energetico contribuendo ad abbatterne i costi. Inoltre,  il mercato europeo ha consentito lo sviluppo di filiere produttive, anche fuori della UE, che esprimono leader industriali globali, tanto che alcuni in Germania oggi considerano gli incentivi tedeschi al fotovoltaico il meglio-riuscito programma di cooperazione internazionale mai realizzato. Questo ha portato tecnologie come eolico e solare ad essere competitive con quelle tradizionali - anche senza incentivi - in molti paesi non UE, sviluppati, emergenti e in via di sviluppo.

Anche in Italia gli analisti più obiettivi riconoscono che il conto energia per il fotovoltaico ha avuto molte ricadute positive e le distorsioni che tuttora vengono messe in evidenza dipendono prevalentemente dall’errore di aver esteso generosi incentivi agli impianti di dimensione medio-grande. Chi conosce la storia “da dentro” può certamente ricordare che originariamente l’intenzione era di  consentire lo sviluppo degli impianti FV medio-piccoli, anche come leva per sviluppare un rinnovamento energetico (fronte elettrico) a vantaggio del settore edilizio-residenziale e commerciale. L’estensione dell’incentivo a dimensioni industriali ha invece attratto attori interessati soltanto ad operazioni di finanza, che certo non hanno fatto il bene del comparto elettrico. Ma la storia, quando viene strumentalizzata, non è mai magistra vitae.  

L’Italia è peraltro prima in classifica per percentuale di energia solare che contribuisce al fabbisogno nazionale, secondo le ultime stime dell’International Energy Agency (IEA): l’8% della domanda elettrica è coperta dal fotovoltaico. Seguono Grecia e Germania, con 7,4% e 7,1% della produzione.

Questo salto in avanti delle tecnologie e dell’industria energetica era appena all’inizio nella seconda metà degli anni ‘00, ma ha subito un processo di costante accelerazione da allora.

Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), nel corso del prossimo quarto di secolo le emissioni legate al settore energetico potrebbero ridursi significativamente, portando al decoupling tra domanda di energia ed emissioni, a partire dal settore elettrico. In questo modo, sarebbe possibile contenere l’incremento della temperatura globale. Sebbene molti paesi, soprattutto i più vulnerabili, precisino che i loro obiettivi sono condizionati al supporto finanziario che riceveranno per realizzarli, i principali emettitori, che pesano per oltre l’80% delle emissioni, realizzeranno comunque le misure e gli obiettivi annunciati. Alcuni paesi emergenti, inoltre, si stanno proponendo come leader di nuove forme di cooperazione sud-sud, per aiutare la transizione energetica degli altri paesi in via di sviluppo. Tra questi la Cina, per cui tale leadership riveste, non soltanto un significato politico, ma ha anche un peso economico-industriale non trascurabile: l’industria manifatturiera cinese di tecnologie come il fotovoltaico e l’eolico è infatti tra i leader del settore a livello globale.

Non è questo ancora un risultato di per sé sufficiente ad avere effetti che conservino in equilibrio il sistema climatico, ma è pur sempre un risultato.

12 dicembre 2015: un “tipping point

Il 12 dicembre 2015 è ormai una data storica: è la data in cui 195 paesi sono riusciti a trovare un accordo per la riduzione delle emissioni antropogeniche e la gestione degli impatti derivanti dall’innalzamento della temperatura terrestre.

Dopo anni di negoziati, e con il ricordo ancora vivo, e bruciante, del fallimento della Conferenza di Copenaghen, delegazioni da tutto il mondo si sono riunite a Parigi, dal 30 novembre al 12 dicembre appunto, per dare vita ad “un nuovo protocollo o altro strumento legale o di altro risultato condiviso dotato di forza legale nell’ambito della Convenzione Quadro, applicabile a tutte le Parti”.

Perché l’accordo finale raggiunto può essere stato valutato come positivo? 195 paesi che si impegnano a controllare le loro emissioni di gas serra rimane un evento di portata storica, qualunque siano i dubbi e le perplessità in relazione al tanto che rimane da fare.

Quello di Parigi non è un accordo top-down stile Protocollo di Kyoto, dove si definisce un framework affidando poi ai singoli paesi la definizione degli obblighi di riduzione delle emissioni, attraverso un sistema di tipo classico, command and control. Tale approccio non ha funzionato; pertanto a Parigi si è deciso di seguire il diverso approccio bottom-up, per cui gli obblighi di riduzione delle emissioni sono stabiliti volontariamente a livello nazionale (Intended Nationally Determined Contributions) e non sono previste sanzioni per gli Stati che non rispettano tali “contributi determinati”.

In sintesi, si può dire che l’accordo di Parigi è costruito attorno a tre obiettivi principali:

  1. contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, con l’impegno  di raggiungere il più rigoroso limite di 1.5°C, che  ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti dovuti al riscaldamento globale;  
  2. accrescere la capacità di adattamento agli impatti avversi del cambiamento climatico, promuovere uno sviluppo economico a basse emissioni, in modo che non sia minacciata la produzione alimentare;
  3. creare flussi finanziari coerenti con un percorso di sviluppo economico globale a basse emissioni di gas-serra e “resiliente” ai cambiamenti climatici. Questo obiettivo, apparentemente vago, dà in realtà un mandato politico ampio e globale alle istituzioni finanziarie internazionali (FMI) e multilaterali (Banche di sviluppo) che consiste nel cercare di non favorire/supportare più certe iniziative energetico-industriali come per es. il finanziamento di una grande centrale a carbone in un PVS.   

Per raggiungere ciascuno di questi obiettivi, l’accordo prefigura un percorso dal 2020 in avanti. In particolare, rispetto all’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura al di sotto della soglia di sicurezza dei 2° C stabilita dalla comunità scientifica, l’accordo si propone di raggiungere il picco delle emissioni globali di gas serra il più presto possibile, per avviarsi poi verso una rapida riduzione fino a raggiungere, nella seconda metà del secolo, la parità tra emissioni prodotte e quelle assorbite. In tale prospettiva, i sopracitati “contributi determinati a livello nazionale” sono i programmi di mitigazione progressivi nel tempo, che tutti i paesi parte dell’UNFCCC sono chiamati ad avviare.

A titolo esemplificativo:

-          i 28 Paesi dell’UE si impegnano al target di riduzione delle emissioni del 40% rispetto al 1990, entro il 2030 (cfr. le conclusioni del Consiglio dell’ottobre 2014);

-          gli USA si sono invece posti un target di riduzione del 26% - 28% al 2015 rispetto al 2005. Le azioni interne previste includono: 1) il Clean Power Plan che riguarda il controllo di emissioni per impianti di generazione elettrica esistenti e nuovi; 2) definizione di standard aggiuntivi nell’uso di carburanti; 3) abbattimento emissioni di metano nelle discariche e nel settore Oil & Gas; 4) ulteriori interventi per controllo di idro-fluorocarburi; 5) rigorosi standard di efficienza energetica nel settore edilizio e residenziale.

Assai importante è poi il processo di revisione dello stato di attuazione dell’accordo, che avrà inizio nel 2023 e verrà successivamente ripetuto ogni 5 anni con l’obiettivo di valutare i progressi rispetto al raggiungimento collettivo degli obiettivi di lungo termine. La revisione riguarderà tutti gli elementi chiave dell’accordo: in primis la valutazione dei contributi nazionali di mitigazione, ma anche le azioni di adattamento, gli impegni finanziari; il tutto anche alla luce dei futuri risultati scientifici forniti dall’International Panel on Climate Change (IPCC). In ogni caso, per venire incontro a quei paesi che hanno ritenuto la data del 2023 troppo lontana, soprattutto con riferimento all’analisi degli impegni di mitigazione, una prima valutazione verrà effettuata già nel 2018.

Dal punto di vista dell’efficacia giuridica, l’accordo di Parigi si caratterizza per essere composto da una parte vincolante, ove si stabiliscono regole comuni volte a promuovere un processo trasparente e ad assicurare la valutazione degli obiettivi, e da un’altra parte che rinvia invece la definizione di regole vincolanti alla legislazione nazionale di ciascun Stato. Questa soluzione “ibrida” è di fatto servita per ottenere una larga adesione su uno strumento quanto più possibile flessibile. La rigida distinzione inclusa nel Protocollo di Kyoto, tra stati  Annex I, con impegni di riduzione vincolanti, contrapposta a quelli non Annex I, che invece non ne avevano, è stata sostituita da una nuova forma di differenziazione, più sfumata e flessibile. Vero sì che molte disposizioni stabiliscono impegni e regole comuni per paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, ma, nondimeno, si tiene conto delle diverse circostanze e capacità nazionali, sia attraverso la cosiddetta “auto-differenziazione”, implicitamente inclusa nei contributi nazionali, sia attraverso regole più dettagliate, come nel caso del supporto finanziario.

Al di là della forma giuridica dell’accordo di Parigi, funzionale ed inclusiva, Parigi ha costituito una svolta nella misura in cui, oltre ai soliti interlocutori (compagnie già operanti  nel business della low-carbon economy, società civile, istituzioni locali, mondo della ricerca, associazioni non governative), il dibattito si è aperto alla c.d. Fund Management Industry, alla finanza globale dunque.

In definitiva, uno dei successi di questa conferenza è quello di aver mobilitato i grandi players dell’investimento globale sul tema del cambiamento climatico. In quest’ottica, la “decarbonizzazione dei portafogli” è tra le tendenze più rilevanti in atto. Lo dimostra l’aumento dei firmatari dell’accordo Montreal Carbon Pledge, un testo lanciato nel settembre 2014 dalle Nazioni Unite che mira a incoraggiare gli investitori a misurare e pubblicare ogni anno, a partire dal 2016, la “carbon footprint” del proprio portafoglio finanziario (l’“impronta di carbonio” è il totale delle emissioni di gas serra dalle aziende presenti nel portafoglio). Lo dimostra, altresì, l’aumento costante degli asset di prodotti socialmente responsabili, il cui patrimonio è salito dell’8% anno su anno, arrivando a quota 136 miliardi di euro (pari all’1,7% del totale investito in fondi in Europa).

Come questo nuovo approccio degli asset managers si declini nella realtà operativa è ancora tutto da verificare, in quanto mancano dei riferimenti standard solidi e strutturati che possano essere usati come benchmark. Il Financial Stability Board (FSB) sta comunque elaborando delle linee guida e incoraggia le imprese a rivelare i rischi climatici legati alla loro attività.

L’imperativo di breve termine, al momento, è la costruzione di un portafoglio ri-equilibrato, tenendo conto di componenti economiche, tecnologico-industriali, geografiche, sociali e ambientali. Nondimeno, l’acquisto di una azione o di una obbligazione sulla base del relativo impatto climatico pare ancora un orizzonte di là da venire.

In ogni caso, in una prospettiva eco-compatibile, nella valutazione di un investimento si potrebbe tenere conto ad esempio dell’impatto della Co2. Ciò guardando alle emissioni dirette di un’azienda (ad esempio quelle di un generatore che brucia combustibile); alle emissioni di cui un’azienda è indirettamente responsabile (a causa ad esempio dei suoi consumi finali di energia); oppure alle emissioni di cui sono responsabili i suoi clienti (consumandone i prodotti finiti).

 Ma ci troviamo ancora in ambiti quasi inesplorati e il percorso verso la climate-related financial disclosure è oggi solo all’inizio.

*L’Autore dell’articolo (Andrea Marroni) ha partecipato a numerosi negoziati multilaterali relativi al Clima ed è stato il delegato italiano alla Commissione Preparatoria dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Rinnovabili (www.irena.org). Le valutazioni e le idee espresse nel presente articolo non rappresentano alcuna posizione formale, ma esclusivamente alcune riflessioni di natura personale.

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