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Esponenti di intermediari bancari: verso un “merito imposto”?

di Michele Cossa*

 

 

La governance degli intermediari bancari ha acquisito progressiva importanza nel quadro della vigilanza prudenziale, gradualmente guadagnando un ruolo di pari dignità rispetto agli aspetti qualitativi, tradizionali in tale tipo di controllo pubblico. L’affermarsi del modello di “vigilanza per obiettivi”, propugnato da Basilea, ha responsabilizzato le élite gestionali delle banche non più tenute, salvo rari casi, a munirsi della preventiva autorizzazione dell’Autorità di vigilanza, quanto piuttosto a raggiungere gli obiettivi dalla stessa fissati, con discrezionalità e autonomia rispetto agli strumenti strategici e gestionali da utilizzare in vista di tali finalità. E’ questo uno dei portati più importanti dell’apertura delle frontiere e dei mercati, dello sviluppo della concorrenza, del processo secolare di regresso, almeno parziale, dello Stato capitalista anche da quei settori dell’economia dove pure preminenti finalità di carattere pubblico hanno sempre consigliato una pervasiva presenza pubblica. Il presupposto del flessibile modello per obiettivi, oltre che una normazione più soft che hard, fenomeno molto evidente più negli Stati anglosassoni che nell’Europa continentale, è un’ampia apertura di credito verso il mercato, da correggere con interventi mirati ma da non imbrigliare, per quanto possibile, ex ante.

Il reality check, almeno delle più ottimistiche o estremistiche versioni di questi fondamenti teorici, è stata la crisi economica che ha squassato l’intera economia mondiale a partire dalla seconda metà dello scorso decennio. Per quanto l’analisi delle cause della crisi non sia forse ancora terminata, e soprattutto di una pluralità di eventi eziologici debba parlarsi, è abbastanza indubbio che a fronte di comportamenti fortemente deficitari, quando non del tutto opportunistici e fraudolenti, degli esponenti di intermediari creditizi, la legislazione dei vari Paesi non ha quasi mai fornito immediatamente ai supervisori strumenti efficaci ed organici per reagire. A questo si è cercato negli ultimi di anni di porre rimedio, con un ampio programma di riforma della regolazione bancaria. Il tema è quello della “ripositivizzazione” – si passi questo neologismo a fronte del non più accattivante “re-regulation” che si legge nella pubblicistica straniera – del settore finanziario. La norma positiva torna ad occupare zone grigie prima spesso lasciate alla disciplina morbida di atti non vincolanti o alla fluidità della prassi.

In questa temperie, come anticipato, l’emergere dell’attenzione per la governance bancaria è stato prepotente. Normatori internazionali e nazionali hanno realizzato definitivamente che in una disciplina di vigilanza imperniata sul concetto di rischio, la previsione, più o meno articolata e complessa, di aggregati patrimoniali in funzione precauzionale non può mettere in ombra la valutazione, e il controllo nel continuo, di funzioni e presidi che i rischi dovrebbero individuare, gestire, monitorare, ridurre. Da qui la dettagliatissima disciplina dei controlli interni delle banche; le regole sulla composizione e il funzionamento degli organi sociali, che introducono deroghe di diritto comune talmente forti che ormai la dottrina si interroga sull’esistenza di un diritto commerciale speciale per i soggetti del settore finanziario, banche in primis; i limiti e i vincoli alla remunerazione dei soggetti apicali delle banche; e si potrebbe continuare. Il tema è vasto, ed oggetto di crescente attenzione anche da parte della dottrina; non è qui possibile esaminarlo in profondità.

Ci si vuole piuttosto concentrare su due aspetti, attinenti all’attività (principalmente, ma non solo), dei componenti degli organi di amministrazione e controllo, ove l’addentrarsi della disciplina di vigilanza in ambiti che da tempo le sembravano preclusi appare significativo proprio in relazione al tema della Rivista che ospita questa breve riflessione. Il riferimento è a un ambito disciplinare e a un potere; il primo, già esistente da tempo nel nostro (e in altri ordinamenti), che però nell’ultimo lustro trova sviluppi di vastità forse imprevedibile; il secondo, che rappresenta una novità quasi assoluta, e che sollecita una serie di interrogativi e di riflessioni. Si allude alla disciplina dei requisiti degli esponenti aziendali delle banche, da un lato; al potere di rimozione degli esponenti stessi, dall’altro. Accomunare questi aspetti nell’ambito di un’unica trattazione appare d’altronde quasi fisiologico, considerando che entrambi questi strumenti mirano a valutare la “qualità” del soggetto che siede negli organi sociali.

E’ appena il caso di notare che, nella società di diritto comunque, è considerata capitale espressione dell’autonomia negoziale dei soci, il loro diritto di scegliere, secondo il principio maggioritario, i soggetti deputati al perseguimento dell’oggetto sociale. Del pari, è sempre rimessa ai soci, ovvero a coloro che hanno effettuato un investimento economico nella società, la valutazione circa i risultati dell’attività di gestione e controllo e quindi in merito all’opportunità di mantenere o meno i soggetti nominati nelle responsabilità già attribuite loro. Questo spiega, ad esempio, le regole sulla nomina di amministratori e sindaci e lo sparuto novero di cause di ineleggibilità e decadenza previsto dall’art. 2382 c.c., limitato a situazioni macroscopiche (con facoltà però per lo statuto – comunque espressione di volontà dei soci – di prevedere requisiti più restrittivi); catalogo invero esteso per i sindaci, ma per lo sforzo del legislatore di garantire il più possibile imparzialità ed efficacia ad un organo di controllo che è ordinariamente espressione della stessa maggioranza che nomina i gestori (cfr. art. 2399 c.c.). Del pari, si spiega la revocabilità ad libitum degli amministratori, salvo il diritto al risarcimento dei danni in assenza di giusta causa.

Nelle società bancarie, l’erompere delle istanze pubblicistiche sottese alla tutela del risparmio complica il quadro. Innanzitutto, la presenza di requisiti di professionalità, onorabilità, indipendenza, dal codice civile rimessi alla previsione dell’autonomia statutaria, è obbligatoria per legge. Nella formulazione originaria del Testo Unico Bancario, all’imposizione dell’obbligo si accompagnava un’ampia delega alla normazione secondaria, rimessa però, a differenza che nella maggioranza delle ipotesi, non alla Banca d’Italia nelle vesti di autorità di regolazione, ma al Ministro dell’Economia. Tanto, sul presupposto che una disciplina che limitava l’esercizio di libertà anche di respiro costituzionale, pure soccombenti a fronte di interessi di pari rango, dovesse comunque essere specificata da una soggetto appartenente al circuito di legittimazione democratica. E il Ministro (si veda, per le banche, il d.m. n. 144/1998) si era attenuto ad una soluzione molto rigorosa e fortemente attenta all’autonomia dei soggetti interessati. Poche ipotesi sia per l’onorabilità (connesse alla condanna in via irrevocabile per una serie di reati a pena di entità definita; salvo la clausola generale che escludeva il requisito per condanna a due anni per qualsiasi delitto non colposo), sia per la professionalità (che faceva riferimento ad esperienze e competenze maturate in categorie nominate di impieghi e attività, per durata graduata a seconda dell’importanza dell’intermediario); nulla per l’indipendenza, per la quale ci si doveva rifare alle regole di diritto comune. Il sistema dunque era costruito sull’individuazione di una serie, contenuta, di situazioni, che ex ante il legislatore riteneva preclusive all’assunzione di una carica in un intermediario bancario. Situazioni agevolmente indagabili dall’organo di amministrazione, in prima battuta, e dalla Banca d’Italia, in seconda, in ossequio ad un sistema di valutazione a due step, il cui esito deteriore per l’interessato poteva essere la decadenza dalla carica.

Il quadro appena descritto, sedimentato da un’applicazione più che ventennale, è in via di rapido mutamento, sulle spinte dell’armonizzazione del rulebook europeo di vigilanza, che ha premiato le soluzioni meno “minimaliste” di ordinamenti meno diversi dal nostro. La fonte di riferimento non è tanto la Direttiva 2013/36, cd. CRDIV, che reca la disciplina sulla governance degli intermediari, quanto le Guidelines dell’Autorità Bancaria Europea, che hanno specificato il testo delle Direttive susseguitesi nel senso di suggerire (secondo però il modello comply or explain) una valutazione a tutto tondo, e a carattere fortemente discrezionale, della qualità del candidato esponente. Il nostro legislatore, pure non rinunciando alla tecnica del rinvio alla disciplina secondaria, sembra aver chiaramente recepito gli intendimenti europei, novellando, con il d.lgs. n. 72/2015, l’art. 26 TUB in senso estremamente innovativo per il nostro ordinamento. Rimangono i requisiti rigidi previgenti, ma fungono adesso da nocciolo duro non discrezionale di una valutazione che si ampia, e comprende ora i “criteri” di competenza e correttezza, che vanno a formare i canoni del giudizio di complessiva “idoneità” dell’esponente al fine di garantire la sana e prudente gestione della banca. Il decreto ministeriale di attuazione di tali criteri, previsto dall’art. 26, comma 3, non è ancora stato emanato; tuttavia la fuga dal circoscritto modello valutativo precedente è già chiara se solo si considerano le indicazioni con riferimento al criterio di “correttezza”, che fa riguardo “tra l’altro, alle relazioni d’affari dell’esponente, alle condotte tenute nei confronti delle autorità di vigilanza e alle sanzioni o misure correttive da queste irrogate, a provvedimenti restrittivi inerenti ad attività professionali svolte, nonché a ogni altro elemento suscettibile di incidere sulla correttezza dell’esponente”. Il breve catalogo, peraltro aperto, richiama le situazioni prese in considerazione dall’EBA nelle sue Guidelines, che spingono verso una valutazione complessiva della condotta del soggetto nei suoi rapporti professionali e d’affari, nonché ai suoi comportamenti in precedenti esperienze nel settore. E si vedano in particolare le Guidelines on the assessment of the suitability of members of the management body and key function holders del 2012, che ora sembrano in via di superamento, verso una disciplina ancora più analitica, stando almeno ad un documento messo in consultazione dall’Autorità nello scorso ottobre insieme alle altre due agenzie UE del settore finanziario (ESMA e EIOPA; tutti i documenti citati sono reperibili sul sito www.eba.europa.eu). Del pari, la professionalità, secondo l’EBA, si dovrebbe ampliare alla valutazione delle conoscenze teorico-pratiche dell’interessato, fino addirittura, forse (ma si attendono le scelte nazionali) a spingersi fino alle interviews che nei paesi anglosassoni le Autorità conducono per sondare conoscenze (ed in generale, per arricchire la valutazione con un contatto personale) del candidato. Che d’altronde la strada tracciata dall’EBA sia ormai inevitabile quella indicata, è testimoniato dalla presa di posizione della BCE, che ha pubblicato il mese scorso una Draft guide to fit and proper assessment (in www.ecb.europa.eu), nella quale sposa l’approccio “olistico” dell’EBA (proponendosi così di fissare criteri ampi sulla base dei quali svolgerà la propria valutazione sugli esponenti degli intermediari bancari da essa direttamente vigilati).

Le Autorità di vigilanza entrano dunque in modo estremamente penetrante nelle scelte della comunità sociale. Ovviamente, questo assessment si arricchisce anche di una inedita complessità, costringendo i supervisori ad un delicato giudizio prognostico circa la possibilità che vicende che hanno riguardato il soggetto al di fuori dell’incarico cui aspira possano influire sulla sana e prudente e gestione dell’intermediario. Sarà interessante, dunque, una volta completato il quadro normativo con l’emanazione della disciplina secondaria, valutare il governo che di tali regole verrà fatto dalle Autorità di Vigilanza e come queste si confronteranno con un onere motivazionale, che, in caso di decisione negativa, appare come il punto cruciale sul terreno della pratica attuazione della riforma.

Ma se la barriera all’accesso degli incarichi in intermediari bancari assume sempre più i caratteri di uno screening complessivo sull’attività passata e presente del soggetto, anche lo svolgimento della funzione, nel continuo, non sfugge oggi ad una valutazione incisiva e personalizzata. Un’altra rilevante novità del decreto n. 72/2015, poi modificata con i d.lgs. n. 180 e n. 181/2015 (di recepimento del quadro europeo di gestione delle crisi bancarie, cd. Direttiva BRRD), è infatti l’introduzione, per la prima volta, del potere di rimozione diretta, di autorità, di uno o più esponenti dell’intermediario creditizio (cd. removal).

Semplificando, il TUB prevede oggi due possibili provvedimenti di rimozione:

1) Si avrà innanzitutto un removal quando la permanenza in carica dell’esponente sia di pregiudizio alla sana e prudente gestione dell’ente (art. 53-bis TUB). La norma italiana, introdotta in sede di recepimento della CRD IV, è rimasta utile anche ad inglobare e a recepire il removal di cui all’art. 27 BRRD, previsto come “misura di intervento precoce” in una situazione di “pre-crisi” (esemplificando, “un rapido deterioramento” degli equilibri tecnici”).

2) Quindi, un removal necessariamente collettivo, residuale, perché ammesso solo quando altre misure di intervento precoce, tra le quali può trovare posto anche il removal individuale, non possano da sole porre rimedio alla situazione (artt. 69-octiesdecies e 69-vicies-semel). Il potere è attivabile al ricorrere degli stessi presupposti che giustificano l’amministrazione straordinaria (in attuazione dell’art. 28 BRRD): “gravi violazioni di disposizioni legislative, regolamentari o statutarie o gravi irregolarità nell’amministrazione ovvero quando il deterioramento della situazione della banca o del gruppo bancario sia particolarmente significativo”.

Ora, esula da questo intervento un’analisi dettagliata dell’istituto. Quel che interessa sottolineare è che, facendo seguito alle richieste della stessa Autorità di Vigilanza (DRAGHI, Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia sul 2009, in www.bancaditalia.it), adesso alla stessa è possibile far cessare dall’incarico uno o più esponenti aziendali dell’impresa vigilata anche in assenza di una violazione accertata e conclamata, ma sulla base di un giudizio prognostico che pure si innerva su quanto concretamente ha fatto l’interessato fin al momento. Le ipotesi composite sono varie: il removal individuale sembra pensato soprattutto, ma non solo, per fronteggiare le ipotesi di cd. “imperial CEO”, ovvero di indebito accentramento di potere nell’ambito dei processi decisionali da parte del soggetto investito di funzioni esecutive, o comunque da parte di soggetto che riesce, per ragioni di fatto, ad esercitare un’influenza determinante, anche larvata, sull’organo collegiale. Il removal collettivo, invece, nasce come alternativa alla amministrazione straordinaria, come strumento permesso all’Autorità allorché ritenga di avviare un profondo rinnovo nella conduzione dell’ente, ritenendo però che tale la stessa comunità dei soci possa realizzare tale discontinuità esprimendo i nuovi organi, senza che sia necessaria l’onerosa e penetrante soluzione del commissariamento.

Ma le ipotesi possono essere varie, e soprattutto la formulazione dell’art. 53-bis sembra attagliarsi a comprendere i molteplici esiti della realtà concreta; anche se tale flessibilità si riverbera in un complicato bilanciamento, case by case, tra i rilevanti interessi in gioco.

Si inserisce dunque una valutazione on going di merito, declinando però quest’ultimo concetto in senso funzionale al perseguimento degli interessi cui sono preposte le autorità pubbliche di vigilanza, ovvero la stabilità e solidità del sistema bancario (e, di riflesso, economico in generale). Anche in questo settore, dunque, la fiducia nelle capacità selettive del mercato ha ceduto il passo al conferimento di poteri di costante controllo sulle qualità personali e professionali di chi assume responsabilità di gestione e controllo, in modo da intercettare in ogni momento eventuali deficienze o anomalie, limitandone le refluenze sulla situazione dell’intermediario.

Resta da valutare se l’ampliamento dello spettro valutativo ex ante, ma esteso anche a vicende successive alla nomina, con l’allargarsi dei criteri di fitness e propriety fino a situazioni fluide e non definite, non finisca per sovrapporsi con lo stesso campo di applicazione dei poteri di rimozione. In sintesi il verificarsi, durante l’incarico, di vicende che mettono in dubbio la competenza o la correttezza dell’esponente dovrebbe dar luogo a valutazione ex art. 26 TUB o ex art. 53-bis TUB? Quest’ultima norma decide, nel senso della prevalenza della valutazione di fit and proper, ma i due poteri sono diversi, anche nella forma del provvedimento finale e situazioni di confine possono immaginarsi già in teoria.

Ma un tale problema applicativo non sembra che il risultato di un fenomeno ben più generale: l’empito disciplinatorio dei legislatori del mondo post-crisi si è tradotto nella previsione di uno strumentario di vigilanza talmente ricco che molti poteri appaiono coincidenti o sovrapponibili. Se ne risente la chiarezza delle categorie teoriche, prevale il risultato sostanzialistico di avere un’Autorità in grado di fronteggiare prontamente le vicende del settore vigilato.

* Le opinioni espresse non rappresentano né impegnano in alcun modo l’Istituzione di appartenenza: Banca d’Italia.

 

(22 dicembre 2016)

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